Una delle cose più belle del Senegal per me è il tè, che si chiama attaya. Tè verde cinese fatto bollire lunghissimamente in poca acqua con mezzo chilo di zucchero e a volte della menta, che in wolof si chiama nanà.

A me piace prima di tutto perché non lo devo fare io, è una roba da uomini (peraltro una delle pochissime cose che un uomo è chiamato a fare, in questo paese dove tutto fanno le donne). Fare il tè prende un botto di tempo, in genere si fa su una bomboletta portatile o più facilmente su un fornetto a carbone, in modo che l’incaricato possa starsene comodo seduto insieme ad altri uomini a chiacchierare.

Dura tanto perché si fa una prima volta, poi una seconda e ancora una terza (si chiamano “servizi”) e si beve sempre solo da due bicchierini, che si passano di bocca in bocca dopo una veloce sciacquata, quando va di lusso. Il Covid ha segnato un breve momento di bicchieri di carta, ma è durata poco.

Il tè non è una vera cerimonia nel senso che non richiede un apparato, non si devono portare abiti adatti, non è limitato ad occasioni speciali: è una roba casual (anche se gli steps di preparazione sono rigorosi) che si fa dappertutto ad ogni momento della giornata. Fare l’attaya è l’attività preferita di coloro che hanno lavori noiosi all’esterno, ad esempio i guardiani:  tiene impegnati ma senza distrarre, richiede un equipaggiamento minimal ed economico, si fa mentre si chiacchiera (i capannelli di uomini che fanno l’attaya sono il Bar Sport di un paese che non ha bar).

Il primo servizio (léwal) è molto forte; il secondo, che non ha nome wolof, ha un’aggiunta di foglie di te ma è più dolce del primo ed il terzo è dolcissimo perché si fa aggiungendo solo un po’ d’acqua, la menta e una palata di zucchero. Si dice che il primo tè sia amaro come la morte, il secondo dolce come la vita e il terzo  zuccherato come l’amore.

Fare l’attaya in famiglia spesso è compito dei figli maschi adolescenti, che appunto imparano che quello è l’unica richiesta vagamente legata alla cucina che saranno mai chiamati a soddisfare, a meno che ad un certo punto lascino il Senegal ed incontrino un ventunesimo secolo progressista.

Quando si è fuori l’attaya si può anche facilmente comprare per strada da venditori ambulanti ma è sempre un po’ un ripiego, quando proprio non è possibile trovare un Bar Sport ad uno dei tre stadi di preparazione dove, si sa, un guardiano sarà sempre disposto a condividere il suo nettare.

Mio marito chiede spudoratamente il tè a chiunque lo stia facendo, camminando per strada, con mia somma vergogna ma poi vedo come il preparatore di tè è contento come una pasqua di condividere e mi ricordo che siamo nel paese della teranga.