Non mi ricordo che giorno della settimana fosse quando sono arrivata a Dakar per la prima volta, era gennaio 2013. Mi ricordo che appena scesa dall’aereo ho sentito caldo e odore di mare e mi sono parsi due ottimi segnali.
Non avevo attese, arrivavo per lavoro un po’ per caso, sapendo poco o niente. Ero curiosa ma non troppo eccitata (sono Torinese, understatement è il mio secondo nome), zoppicavo in francese, non ero sicura se musulmano avesse una o due esse.
Mi lavavo i denti con l’acqua minerale, non mangiavo verdure crude o frutta senza sbucciarla, mi irroravo di Autan ogni quattro ore. Ero scrupolosa perché non volevo ammalarmi, aspettavo con ansia di andare in Kenya qualche settimana dopo e il Senegal mi sembrava solo una prova generale di Africa nera.
Dei miei primi giorni a Dakar ricordo pochi avvenimenti ma molti dettagli: un’autostrada davanti all’albergo, che si doveva attraversare lanciandosi in mezzo alle auto sparate; un’attesa di 3 ore di notte perché una collega venisse a prenderci per portarci ad un concerto che iniziò alle 2 del mattino; una vomitata dal finestrino dell’auto; un topolino che mi passa sui piedi in un fast food; un esercizio di vendita di montoni nello spartitraffico sabbioso della strada davanti all’ufficio.
Ero con un collega madrelingua francese quindi non feci alcuno sforzo per comunicare direttamente e questo mi impedì di raccogliere le informazioni necessarie per avere un’opinione sulle cose che accadevano, io avevo la testa già in Kenya.
Ovviamente non capii niente della pianta della città, visitai un paio di cose belle e le apprezzai, ma i fischi che presi per fiaschi in quelle due settimane li scopersi solo mesi dopo, quando tornai da sola e dovevo nutrirmi, lavorare, negoziare i tragitti in taxi.
Mangiammo cose varie, delle quali però non serbai ricordi particolari, lì per lì; il collega madrelingua era un gourmand, si occupava lui di nutrirci ed io ero ben contenta di seguire a ruota (conservavo le energie per il Kenya).
I giorni passavano, il collega francofono, grande esperto di Kenya, lodava in confronto il Senegal per il traffico scorrevole che a me pareva infernale, per il buono stato delle auto che a me faceva paura salirci; entrambi ci stupivamo per l’altissimo numero di scuole ed istituti di formazione con nomi altisonanti e ci bevevamo delle buone birre a fine giornata.
Un consiglio buffo della guida, che io seguii pedissequamente, era di indossare scarpe chiuse la notte, per via delle buche per terra. In prospettiva mi pare un consiglio trascurabile (le buche ci sono e l’illuminazione stradale che permetterebbe di evitarle è discutibile, ma ci si può muovere tranquillamente in sandali anche al calare della notte) ma ricordo bene che, durante quel primo assaggio di Senegal, se non riuscivo a cambiare scarpe prima di cena rimanevo inquieta tutta la sera, non volendo evidentemente arrivare in Kenya zoppa.
Il mio primo soggiorno in terra d’Africa passò velocemente, fummo presi per il naso in multiple occasioni (ricordo delle fotocopie pagate oro), incontrammo gente generosa ed ospitale (incontravo la teranga senza saperlo ancora). Ma me ne partii sapendo di tornare, senza patemi d’animo e senza mal d’Africa (nemmeno quello più comune, stranamente). Quello che successe dopo è My Beautiful Senegal.