La mia prima Tabaski risale al 5 ottobre 2014. Un amico mi invitò a casa di sua sorella e io accolsi l’invito con gioia, non sapendo assolutamente come si sarebbe svolta la giornata. Pensavo ad una lunga giornata un po’ natalizia: si mangia tanto, si beve, si chiacchiera a poi si rotola a casa a mangiare la minestrina.

L’amico viene a prendermi in auto alle 11 del mattino e la macchina è piena come un uovo. Soprattutto di lattine. Ci saranno state almeno dieci casse di queste lattine e poi c’erano enormi sacchetti pieni di insalata, patate e, ovviamente, alcuni sacchi di cipolle da 25 kg.

Ci avviamo e sul cammino (sua sorella abitava a circa 30 km da Dakar) ci fermiamo a salutare amici e parenti almeno cinque o sei volte. Ogni volta grandi saluti (i salamelecchi esistono davvero e durano alcuni interminabili minuti), domande su come sto io e come sta la mia famiglia in Italia, come trovo il Senegal, se parlo wolof.

Finalmente, io già esausta, guadagniamo la casa della sorella. Casa che è quasi finita, ma non del tutto. Come peraltro tutte le case del quartiere.

Adesso mi fa tenerezza la me stessa di dieci anni fa, che davanti ad una stradina sabbiosa immaginava dei poveri derelitti in quelle case. Loro erano dei piccolo borghesi che potevano costruirsi una casa, in una periferia in cui oggi il valore del mercato immobiliare è quintuplicato e io una simpatica sprovveduta convinta di sapere tutto.

Quel giorno scopersi molte cose che solo col tempo ho saputo mettere in prospettiva, al momento molte di quelle cose mi fecero impressione, alcune proprio schifo, e molte altre stupore sconfinato.

Ho scoperto, ad esempio, che l’uccisione della bestia, non importa quanto forte sia la motivazione religiosa, è un gesto emotivamente faticoso: nessuno “ama” farlo anche se è considerato un onore. Si compie nel tempo più rapido possibile, con meno testimoni possibili e non se ne parla.

L’animale viene consegnato alle donne intero e a loro spetta il compito della trasformazione da animale sacrificale a piatto fumante. Ogni. Singola. Tappa.

Il rumore delle accette che si accaniscono contro le ossa non è facile da scordare, anche perché i primi pezzi vengono cotti ed arrostiti immediatamente, ma il resto (ENORME) viene fatto poi a pezzi nel corso del pomeriggio. Quindi i tonfi sordi e i versi di fatica delle signore che spaccano ossa ti transitano fino a sera.

Parecchi festeggiamenti nel corso degli anni non hanno reso meno complessa la questione per me: se da una parte capisco il fervore che giustifica il gesto, penso anche che nel 2022 si potrebbe trovare un modo meno sanguinoso e più simbolico di onorare l’atto di fede di Abramo.

Ad ogni modo…

Al momento di mangiare chiedo di potermi lavare le mani e mi viene indicato un rubinetto nel cortile. Sotto il rubinetto c’è un secchio al posto del lavandino (succede spesso qui e non ci do molto peso), apro il rubinetto e mentre l’acqua scende scopro che il secchio contiene la testa del montone. Era la prima testa di montone staccata dal corpo, pensavo mi avrebbe sconvolta di più invece il mio sistema immunitario emozionale ha tenuto botta.

Una cosa buffa (o no, dipende da quanto siete sportivi) è che la carne del montone, tagliata e arrostita lì per lì, arriva in tavola con dei peli attaccati. Mi hanno spiegato che si tratta dei peli che restano nell’aria post-sacrificio e che si posano sui pezzi di carne che man mano si appoggiano alla griglia. E’ un po’ impressionante detto così, ma il nostro sistema immunitario emozionale è un capolavoro di adattamento.

Quel giorno scopersi anche che le grandi adunate alle quali mia mamma ci ha abituato non erano che una palestra per quello che avrei incontrato qui: per ogni festa comandata passano per casa almeno un centinaio di persone. Un terzo mangia, due terzi passano per lo struscio serale.

Dopo aver sgozzato, spellato, tagliato, arrostito e mangiato (io a quel punto ero estenuata, pur senza aver fatto nulla se non osservare e mangiare) ad un certo punto, quel giorno del 2015,  mi sono accorta che piano piano, senza dare nell’occhio, ciascuno si era lavato, profumato, vestito a festa e truccato pesantemente ed era pronto a fare il giro delle visite ai vicini di casa.

In meno di un minuto è iniziata la giostra: la gente vestita con abiti appena usciti dal sarto si riversava dentro le case e nelle strade, ordinatamente con grandi inchini, saluti, sorrisi, auguri e baci.

Io, meschina, non avevo un cambio, eravamo alla coppa del mondo della ricercatezza e io avevo addosso un vestitello di cotone che la mattina mi era parso una buona idea e ora mi si rivelava nella sua acuta inadeguatezza.

Imparai, quel giorno, anche che i bambini in questo paese sbucano dagli angoli, si muovono in branco, non hanno necessariamente un legame con gli adulti nei loro paraggi e quando passano così di casa in casa, vestiti come dei miniadulti, nei giorni di festa, si aspettano dei soldi.

Questa ossessione per il denaro contante è ancora una cosa che mi irrita, ma il Senegal è un paese povero, meno povero di altri d’accordo, ma sempre povero. In occidente, in genere, si regalano di soldi per mancanza di fantasia (o di voglia di sforzarsi) per fare un altro regalo. Qui il denaro contante, non importa quanto, è sempre, nonostante tutto, il regalo preferito.

Quando io ero pronta ad andare a casa, quella sera del 2014, allo stremo delle forze, il mio amico mi ha detto che saremmo andati a fare un giro. (“Un giro? Ma come, un giro? Ma un giro dove? Non c’è niente, non c’è luce”. Sempre la me di dieci anni fa che parla).

Comunque ci sono andata, a fare ‘sto giro. Si, di luce ce n’era pochina e sicuramente non eravamo a Beverly Hills, ma una volta che ti abitui al buio, sai com’è, no? Pian piano le paillettes e gli abiti luccicanti diventavano visibili, sentivo brusii di vita, come un Natale qualunque a casa, sentivo la gente chiacchierare, ridere, sgridare i bambini.

E, un po’ dappertutto, vedevo delle luci fioche. Erano le buutik! Piene di gente pure il giorno della festa, per comprare le ultime cose oppure un piccolo snack se, per caso, dopo il montone avevi ancora un buchino.

Dio che giornata! Sono tornata a casa ubriaca senza aver bevuto, ma per fortuna il giorno dopo la festa è festa.