Secondo una ricerca del 2020 (dati della Banca Mondiale e Istituto Nazionale di Statistica e Demografia*) a Dakar circolano ogni giorno 25.000 taxi per una clientela di 400,000 persone (su una città di quasi 4 milioni di persone).

I taxi sono ben riconoscibili (gialli o gialli e neri) e sono, sempre secondo la ricerca, in media auto vecchie di 23 anni che costituiscono l’11% del mercato dei trasporti pubblici ma giustificano il 43% della spesa per il trasporto pubblico.

I taxi a Dakar sono onnipresenti, a qualunque ora del giorno e della notte puoi agitare la mano per fermarne uno, le tariffe variano in funzione della distanze, del traffico e della capacità di negoziazione del passeggero, ma in generale sono cari; meno cari che in Europa, ça va sans dire, ma una giornata di commissioni un po’ in giro può facilmente costare 20€.

La condizione delle vetture è molto spesso precaria, può succedere con una certa frequenza di avere dei guasti a metà percorso, una volta su due la portiera non funziona o il finestrino non si abbassa (che può costituire una grana non da poco quando il taxi ha un sistema di evacuazione dei fumi di scarico fantasioso).

L’auto può essere vecchia ma il taxi in genere è pulito impeccabile perché, in questo paese seduto sul bordo del Sahara la polvere si appoggia in un amen e uno dei mestieri più diffusi è il lavatore di auto: ad ogni slargo di strada o area libera si installa un manipolo di uomini che lava le auto per 2€ e i taxi sono il 70% delle auto lavate.

Nonostante le condizioni discutibili, e sapendo che 250 taxi nuovi sono stati immatricolati nel 2019, il taxi rimane il mezzo di trasporto pubblico più affidabile.

Come accompagnamento delle sue lunghe giornate, il taxista normalmente sceglie una programmazione radiofonica limitata a due possibilità:

1- la rassegna stampa dell’uomo più arrabbiato del Senegal (parla solo wolof eppure per me è la personificazione dell’idea di “oltraggiato”)

2- i chants, che sono nenie religiose con dei picchi di urli (bisogna sapere che i musulmani non possono propriamente cantare le lodi del Signore o del suo Profeta perché il canto è considerato un po’ leggero).

Soltanto due eccezioni giustificano una programmazione radiofonica alternativa nel taxi: le partite di calcio e gli incontri di lutte sénégalaise: lo sport nazionale che è una forma di lotta libera ma con un apparato di mistica che si sovrappone alla semplice prestazione sportiva (presto un post sulla lutte, devo segnarmelo).

Accanto ai taxi ufficiali esistono i clandò, auto private che fanno sembrare i taxi ventitreenni delle berline di ultima generazione, che caricano 4 passeggeri alla volta e fanno dei percorsi standard tipo bus, ma fermandosi ogni volta che un passeggero lo domanda (che può significare ogni 30 metri).

I clandò sono spesso pieni di buchi che fanno pensare a delle sparatorie fra gangs, mio marito dice che non è quello ma non sa dare una spiegazione alternativa ragionevole. Io non ho mai osato fermare un autista di clandò per chiedere, fra le varie ragioni c’è quella che non ho mai visto un autista di clandò sorridere. Resta un mistero da indagare, anche quello.

In città i clandò sono utilizzati nel quartiere oppure per tragitti di media lunghezza e vengono usati per lo più da residenti delle periferie che lavorano in città. Non è vietato o pericoloso prendere un clandò da turisti, è semplicemente poco comune. Personalmente, vi invito a non perdere l’opportunità di prenderne almeno uno, se passate da Dakar.

I taxisti guadagnano molto poco, moltissimi non possiedono il taxi ma lo noleggiano giorno per giorno, stanno tutto il giorno in un traffico infernale, hanno spesso guasti che devono venire riparati alla veloce nel bel mezzo di quel traffico infernale (ventitrè anni in età dei taxi è centosessanta in età umana, credo). Senza garanzie sociali di pensione, indennità di malattia o incidenti. E i guidatori di clandò sono messi peggio.

Ho preso molti, moltissimi taxi qui a Dakar, ho fatto alcune conversazioni piuttosto interessanti con taxisti che parlavano solo wolof (lingua che io ancora oggi, dopo anni, pratico con una fatica esagerata ed ad un livello pre-basico); ho ingannato il tempo bel traffico facendomi indottrinare sull’assurdità dello scenario poliandria (che io propongo sempre, quando la conversazione me ne offre la possibilità, perché sono un po’ str**a); una volta ho anche chiesto ad un taxista perché nessuna donna fa il taxista e la risposta è stata “perché è un lavoro pericoloso”.

Questa cosa del pericolo di essere taxista ha, evidentemente, un suo fondamento nel fatto stesso di condividere uno spazio ristretto con sconosciuti, dieci o più volte al giorno.

Io ormai prendo taxi molto raramente ma ‘sta storia del pericolo mi torna sempre in mente quando oggi fermo un taxi e vedo che il taxista è un vecchietto magro magro, con un boubou (i taxisti agés sono sempre vestiti bene) che ha visto giorni migliori, il fez in testa, tre denti nel grande sorriso vuoto. Penso che dovrebbe stare a casa, coi suoi cento nipoti, a mangiare riso e bere attaya. E invece ogni giorno paga a qualcuno l’affitto del taxi (se fosse suo farebbe lavorare qualcun altro) per poter fare un lavoro pericoloso e dare lui il riso ai suoi nipoti.

* qui la fonte dei dati